A meglio comprendere la natura e il valore dei nuovi canti, presi a comporre ad alcuni mesi di distanza dal Dialogo di Plotino e di Porfirio, occorrerà inizialmente rifarsi alla stessa biografia del Leopardi, a ciò che le sue lettere e lo Zibaldone ci dicono sulla ripresa sentimentale e poetica del soggiorno pisano e sulla poetica che presiede alla costruzione dei cosiddetti “grandi idilli”.
Leopardi nell’autunno del 1827, a Firenze, comincia a preoccuparsi di un soggiorno piú propizio alla sua salute, soprattutto per l’inverno che considera particolarmente rovinoso per il suo organismo ammalato. Dopo aver tentato un ritorno a Roma, dalla quale però lo allontanava l’esperienza negativa del 1822-23, e dopo aver pensato anche a Massa per il suo clima dolcissimo, decise per Pisa. Massa infatti gli apparve un luogo in cui «non vi sono uomini di merito, e il soggiorno è malinconico assai»[1].
Il Leopardi, cioè, ricercava una situazione propizia non solo per il clima ma anche per i rapporti umani («uomini di merito», persone di cultura): un ambiente e un paesaggio adiuvanti, socievoli, non assolutamente solitari. Queste condizioni egli ritrovava in Pisa, allora celebre come luogo climatico e frequentata anche da intellettuali stranieri, che lo colpiva per una particolare e suggestiva mescolanza «di città grande e di città piccola», per un certo rapporto tra socievolezza e solitudine. Scrive alla sorella Paolina il 12 novembre 1827, subito dopo il suo arrivo: «Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura cosí, sarà una beatitudine» (parola rivelatrice di una maggiore espansione leopardiana, indizio iniziale della ripresa poetica di questo periodo). «Ho lasciato a Firenze il freddo di un grado sopra gelo; qui ho trovato tanto caldo, che ho dovuto gittare il ferraiuolo e alleggerirmi di panni. L’aspetto di Pisa mi piace assai piú di quel di Firenze. Questo lung’Arno è uno spettacolo cosí ampio, cosí magnifico, cosí gaio, cosí ridente, che innamora» (in questa gradazione si può già cogliere l’amore per il «magnifico» e «ampio», per le larghe prospettive pisane, quel gusto degli ampi orizzonti verso cui si muove una certa parte della poesia di questo periodo: colpisce soprattutto quel «cosí gaio, cosí ridente, che innamora», cioè qualcosa che è piú del bello, del magnifico) «: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma; e veramente non so se in tutta l’Europa si trovino molte vedute di questa sorta. Vi si passeggia poi nell’inverno con gran piacere, perché v’è quasi sempre un’aria di primavera» (un’aria e un motivo della primavera che costituisce una delle parole tematiche della poesia di questo periodo, e che lega questa prosa a quella poesia) «sicché in certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura» (e anche questo del “brillare” è un motivo che troverà una precisa espansione poetica; nel Passero solitario: «Primavera dintorno / brilla nell’aria e per li campi esulta», vv. 5-6). «Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto cosí romantico, che non ho mai veduto altrettanto» (anche questo elemento del suggestivo, del romantico rimanda alla prospettiva poetica di questo momento, a quel gusto dell’aulico e del popolare, del pellegrino e del familiare, dell’insueto e del consueto, dell’elegante e del comune che qui si lega già a un bisogno d’affetto anche rispetto a un paesaggio che come quello pisano lo “incanta”, lo “innamora”). «A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E poi vi si aggiunge che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito; che ho una camera a ponente, che guarda sopra un grand’orto, con una grande apertura, tanto che si arriva a veder l’orizzonte, cosa di cui bisogna dimenticarsi in Firenze»[2].
Se il rapporto del Leopardi con un luogo propizio costituisce un incoraggiamento concreto alla poesia del paesaggio, anche i rapporti umani che egli trova in Pisa convalidano il suo bisogno di una socievolezza che non sia sopraffazione, ma possibilità di alcune amicizie, di alcuni contatti e affetti; si tratta di relazioni che contemperano in misura piuttosto insolita il suo bisogno di solitudine e insieme di socievolezza, in un rapporto con gli altri che non aveva bisogno di difesa come gli era invece accaduto in altri ambienti.
Scrive infatti al padre Monaldo: «qui tutti mi vogliono bene, e quelli che parrebbe dovessero guardarmi con piú gelosia», cioè i letterati, «sono i miei panegiristi ed introduttori, e mi stanno sempre attorno»[3]. Leopardi trova cioè a Pisa una situazione di rapporto equilibrato e propizio con gli altri a cui lo portava la sua nuova tensione affettiva animata dal bisogno di comunicare e di ispirare qualcosa agli altri: e su questo nuovo sentimento degli altri, sul bisogno di un rapporto (che ritornerà tra l’altro in certi passi, ad esempio, del Passero solitario), Leopardi già insisteva in un pensiero del 10 luglio 1827, precedentemente citato: «È ben trista quella età nella quale l’uomo sente di non ispirar piú nulla» (la vecchiaia) [4284].
Questo bisogno di comunicare e insieme l’impressione di sentirsi in un ambiente propizio ai sogni e ai ricordi si ritrova in alcune lettere alla sorella Paolina, che in questo periodo diventa la maggior confidente del poeta, come nel periodo precedente era stato il fratello Carlo. Per esempio in una, la cui parte finale rimanda da vicino a certi elementi della poesia pisano-recanatese: «Che fa Carluccio? e perché non mi scrive mai mai? Luigetto? Pietruccio? Io sogno sempre di voi altri, dormendo e vegliando: ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle rimembranze: là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi assicuro che in materia d’immaginazioni, mi pare di esser tornato al mio buon tempo antico»[4]. È una lettera del 25 febbraio 1828 e chi badi alla data non potrà non ricordare che già il 15 febbraio Leopardi aveva scritto un breve e poco impegnativo componimento, lo Scherzo (il primo documento in versi di questo periodo), e che nell’aprile scriverà Il risorgimento e A Silvia.
Certe vie di Pisa, città mista di cittadino e di villereccio, potevano suggerire al Leopardi aspetti stessi di Recanati, un paesaggio che riaffiora nel ricordo. Il «sognare a occhi aperti», cui accenna Leopardi, non indica tanto un’astrazione nel sogno da tutto ciò che lo circonda, ma significa il sognare in un ambiente propizio dove le sensazioni offerte dal luogo presente danno avvio a un sogno, a un ricordo, a una rimembranza che non è staccata dall’occasione e dal luogo concreto che li hanno suscitati: è un sogno appunto a occhi aperti, non a occhi chiusi. L’espressione «Via delle rimembranze» indica poi che lo strumento poetico cui Leopardi si appoggerà nella poesia di questo periodo, e soprattutto nell’arco che va da A Silvia a Le ricordanze, è costituito dalla rimembranza, dal motivo del ricordo che anche nello Zibaldone viene a prendere sempre maggiore importanza, già prima del soggiorno pisano. Scriveva infatti in un pensiero del 23 luglio 1827:
Memorie della mia vita. Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove piú dove meno o mesi o anni, m’avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantoché io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava: le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. [4286][5]
Già qui è indicata la disposizione a recuperare il passato, a considerare importante un luogo se è capace di ricordarci qualcosa di nostro, di vissuto, di sperimentato, anche se di minima importanza, perché solo allora il ricordo è poetico.
D’altra parte, di questo maggior agio partecipa la sua scrittura, disinvolta e affabile nelle lettere. Scrive al fratello Pierfrancesco il 31 marzo 1828, appena avuta notizia che il giovinetto, avviato da Monaldo alla carriera ecclesiastica, aveva ottenuto un canonicato:
Signor Canonico stimatissimo. Adesso sí che vi posso chiamar canonico di cuore, perché non siete piú canonico senza canonicato, ma canonico di fatto. Vi assicuro che la nuova del vostro possesso mi ha consolato infinitamente. Fate dire a Montaccini che se vuol darsi pace, non faccia digiunare la donna o il giacchetto o la gatta, ma digiuni egli dopo Pasqua per ottanta giorni, che vedrà che gli farà bene. A proposito di Pasqua, vi raccomando quelle povere uova toste, che non le strapazziate quest’anno: mangiatevele senza farle patire, e non sieno tante. Io non mangerò né uova toste, né altro; ché non posso mangiar nulla, benché stia bene, e passo le 48 ore con una zuppa: me ne dispiace fino all’anima, ma pazienza. Se provaste le schiacciate che si usano qui per Pasqua, son certo che vi piacerebbero piú che la crescia: io ne manderei una per la posta a Paolina (perché è roba che ci entra il zucchero), ma bisogna mangiarle calde, e io non posso mandare per la posta anche il forno.[6]
È una scrittura tra enigmatica, allusiva e scherzosa che mostra questa specie di maggior distensione in cui Leopardi si muove in questo periodo: una situazione di maggior sicurezza ed equilibrio che non dà alle lettere, anche satiriche, un tono aspramente polemico, come altre volte avremmo trovato in simili occasioni. Si veda questa lettera al Vieusseux, a Firenze, in cui Leopardi risponde su un fatto accaduto in Pisa in un monastero di monache, poi chiuso dal Granduca perché vi si vantavano dei miracoli e d’altra parte vi si trattavano assai male le educande: «Dell’affare di San Silvestro io sono poco bene informato, come di ogni altra novità, perché non esco punto di casa se non per passeggiare, e in casa non veggo nessuno» (situazione, come si accennava, non del tutto esatta ché Leopardi non mancò a Pisa di amicizie e di incontri seppur misurati in un rapporto propizio di solitudine e socievolezza). «Già saprete della Badessa taumaturga, che moltiplicava prodigiosamente l’olio di una lampada, con rifondervene di nascosto ogni notte» (in questa ironia sui presunti miracoli c’è un tono distaccato e tranquillo) «: saprete delle lusinghe, delle minacce, degl’inganni, dei mali trattamenti che si usavano alle giovani educande per indurle a far voto di verginità prima che conoscessero il significato della parola, e poi a farsi monache in quel monastero: saprete delle apparizioni che si adoperavano a questo effetto; apparizioni di angeli, e apparizioni di demonii; i demonii erano certi topi grossi, ai quali mettevano certi ferraiuolini neri, e un paio di corna (la coda l’aveano del loro), e cosí vestiti li facevano andare attorno, la notte, pel dormitorio»[7].
Meno risentito e drammaticamente intenso, ma non privo di mestizia, di malinconia è il tono di questo periodo pisano, che è anzi tono fondamentale non solo delle lettere ma anche delle poesie, legato soprattutto allo scomparire delle speranze, al tema della morte e della felicità; ma la mestizia è sempre legata alla luminosità, è «malinconia dolce», come scrive Leopardi in una lettera indirizzata al Pepoli, a Bologna, il 25 febbraio 1828:
Non prima che l’altro ieri ebbi da Firenze i tuoi versi, i quali ho letto e riletto con piacer grande, prima perché son cose tue, poi perché mi dimostrano l’amore che tu mi porti, finalmente perché mi allettano assai quella malinconia dolce, e quella immaginazione forte e calda che vi regnano. Io ti desidero di cuore il godimento perpetuo dell’una e dell’altra; e con questo credo aver detto molto; perché anche la malinconia dolce fugge le sventure reali, e la malinconia nera e solida.[8]
Il Leopardi (come osservò il De Sanctis, in un breve capitolo sul periodo pisano)[9] mantiene nel suo fondo una diagnosi di vita disperata, una vita che è pena e noia, ma vi immette qualcosa di piú dolce, un’alacrità sentimentale che si traduce quasi in melodia. In una lettera al Giordani del 5 maggio 1828, dopo aver scritto che «La mia vita è noia e pena», soggiunge:
Quest’anno passato tu mi hai potuto conoscere meglio che per l’addietro; hai potuto vedere che io non sono nulla; questo io ti aveva già predicato piú volte; questo è quello che io predico a tutti quelli che desiderano di aver notizia dell’esser mio. Ma tu non devi perciò scemarmi la tua benevolenza, la quale è fondata sulle qualità del mio cuore, e su quell’amore antico e tenero che io ti giurai nel primo fiore de’ miei poveri anni, e che ti ho serbato poi sempre e ti serberò fino alla morte. E sappi (o ricòrdati) che fuori della mia famiglia tu sei il solo uomo il cui amore mi sia mai paruto tale da servirmene come di un’ara di rifugio, una colonna dove la stanca mia vita s’appoggia.[10]
È una prosa dall’intonazione quasi di canto: un canto, in cui anche il fondo disperato che viene ribadito si risolve in una forma come di mestizia piú dolce, piú misurata rispetto ad altre forme di dolore che il Leopardi aveva profondamente sperimentato e tornerà a sperimentare, e di cui aveva fatto e tornerà a fare grande poesia. In questo periodo si avverte un tono piú pacato e si può anche intendere come da questa disposizione sentimentale, da questa vita già di per sé poetica, per cosí dire, Leopardi potesse esser portato di nuovo alla poesia. È quanto egli dice in un breve passo, ma estremamente significativo, di una lettera alla sorella Paolina del 2 maggio 1828 (successiva quindi al Risorgimento e soprattutto ad A Silvia): «dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta»[11]. È Leopardi stesso che cerca di definire l’ispirazione della nuova poesia pisana come legata al ricordo della sua prima gioventú, in cui egli aveva sentito in sé piú alacrità poetica.
Di questa ripresa di alacrità immaginosa e di sensibilità soprattutto, che costituisce una svolta nella biografia leopardiana, è lo stesso Leopardi a parlarci in termini che possono anche non esser del tutto coincidenti con quelli usati nel Risorgimento, ma certo assai interessanti:
Memorie della mia vita. La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta piú speranza che desiderio, e piú speranze che desiderii ec. [4301][12]
Importante in questo pensiero del 19 gennaio 1828 è la presa di coscienza del Leopardi in confronto al percorso precedente della sua vita, la consapevolezza del mutamento della sua situazione vitale nel periodo pisano visto come ripresa di vitalità e di sensibilità. Anche se qui appare un’analisi meno discriminata rispetto alla diagnosi piú sottile e anche filosoficamente piú precisa del tema della speranza nel Risorgimento, dove Leopardi preciserà come in realtà l’esperienza di vita ha spento in lui le vere speranze, lasciandogli solo un desiderio di vita. In questo pensiero del 19 gennaio i termini sono invece capovolti e può apparirvi appunto una piú indiscriminata volontà e speranza di vita. Può apparire perciò necessario ricordare anche un pensiero del 23 luglio 1827 in cui Leopardi concludendo scriveva:
[...] lo stesso declinar della gioventú è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto piú si sente, quanto uno è d’altronde meno sventurato. Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell’appassimento del fiore dei giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventú. [4287][13]
Leopardi parla della situazione di ogni uomo e non solo delle proprie particolari vicende esprimendo la coscienza che una volta superata la gioventú (l’anno canonico dei 25 anni) non si possono piú avere speranze effettive, solo consapevolezza della sventura amarissima della perdita della gioventú. Rispetto al pensiero del 19 gennaio 1828, questo altro pensiero situa meglio la posizione leopardiana soprattutto in relazione al capolavoro A Silvia, poesia che si muove sul ripresentarsi radioso, luminoso della speranza giovanile viva nel poeta come in Silvia e, successivamente, sul nesso della morte di Silvia e della fine della gioventú del poeta, indicata nell’inizio dell’esperienza filosofica e nel cadere delle speranze. Inoltre sarà da citare il pensiero del 30 giugno 1828, scritto subito dopo il periodo pisano, a Firenze, che è, in qualche modo, il ripensamento della situazione poetica già svolta in A Silvia e sembra ripresentare l’immagine di una fanciulla come Silvia e rapprendervi da un lato il senso luminoso della gioventú e dell’adolescenza e dall’altro il senso doloroso del declinare della vitalità, della perdita della speranza, delle sofferenze che inevitabilmente seguono alla fine della gioventú. Il pensiero illumina bene la situazione di questo periodo, che è piú complessa di quanto possa apparire dal pensiero del 19 gennaio 1828; esso costituisce inoltre una grande pagina poetica, come spesso sono alcune dello Zibaldone:
Una donna di venti, venticinque o trenta anni ha forse piú d’attraits, piú d’illecebre, ed è piú atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione. Cosí almeno è paruto a me sempre, anche nella primissima gioventú: cosí anche ad altri che se ne intendono [...] Ma veramente una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventú, quella speranza vergine [e si noti bene questa espressione che costituisce la chiave della stessa A Silvia, per cui come vedremo la speranza e la donna vengono come a fondersi], incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione cosí viva, cosí profonda, cosí ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che piú di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell’oggetto. La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in certo modo alieni, ce lo fa riguardar come di una sfera diversa e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare. Laddove in quelle altre donne troviamo piú umanità, piú somiglianza con noi; quindi piú inclinazione in noi verso loro, e piú ardire di desiderare una corrispondenza seco. [E si noti ora questa svolta che segna una similarità appunto con il diagramma di A Silvia]. Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di sedici o diciotto anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione [nel senso di qualcosa che si prova, un sentimento personalmente partecipato, piú che una generica pietà] per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente) ne segue un affetto il piú vago e il piú sublime che possa immaginarsi. [4310-4311][14]
Tuttavia se queste parole rappresentano il corrispettivo piú preciso della situazione leopardiana in questo periodo, e della poesia che ne sgorgherà, il pensiero del 19 gennaio ’28 costituisce comunque un’importante presa di coscienza da parte del poeta del mutamento avvenuto nella sua vita nel periodo pisano.
Né mancano nello Zibaldone dichiarazioni a prova del suo desiderio di poesia. Il pensiero del 15 febbraio ’28 mostra corrispondenza con la ripresa poetica realizzata, a questa stessa data, dallo Scherzo, un componimento che insiste soprattutto sullo stile, sulla lima che i contemporanei non adoperano, in polemica con la loro frettolosità e il loro scarso impegno elaborativo e stilistico:
Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventú; è di assoporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d’altri [...] oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. [4302][15]
La presa di coscienza della sua volontà di poesia è chiarita in una chiave estremamente intima, personale, soggettiva, fortemente legata alla poetica di questo periodo: la poesia deve essere un modo, personale, di dar durata ai propri sentimenti effettivi. Qui il Leopardi vuole esprimere l’esigenza piú intima, piú schietta di una poesia, che sia la voce di se stessi, fondata su qualcosa che l’uomo ha effettivamente sperimentato, perché l’uomo poeta conosce soprattutto ciò che è frutto della sua esperienza a cui, attraverso lo strumento poetico, intende dare durata[16].
L’insistenza, d’altra parte, sul compiacimento personale che deve dare la propria poesia, contrapposto anche al giudizio degli altri e al consenso altrui (per cui ciò che importa è il piacere di aver fatto una cosa bella in cui sia conservato il calore della vita passata) va vista anche come risposta ad alcune riflessioni dell’anno precedente, il ’27. In esse Leopardi aveva molto insistito sulla frettolosità, sullo scarso impegno della letteratura contemporanea nello stile e nell’arte. È un senso di delusione verso la letteratura presente che si lega al Parini, ovvero della gloria, in cui egli smantellava la possibilità della gloria attraverso la letteratura, perché nel tempo presente gli uomini hanno un gusto frettoloso, rivolto alle novità vistose e perciò sono incapaci di intendere i segreti dell’arte e dello stile; sicché, concludeva, è oggi impossibile avere un effettivo riconoscimento da lettori cosí mediocri, cosí grossolani. Nello Zibaldone del ’27 Leopardi ritorna su questo tema, insistentemente: di qui la tendenza a comporre una poesia per se stesso, per la propria soddisfazione, anche contro il consenso degli altri, dei lettori.
Né meno importante per intendere la natura e i caratteri della ripresa poetica di questo periodo è la valorizzazione dello stile, dell’impegno stilistico e artistico:
Lo stile non è piú oggetto di pensiero alcuno. [...] Il pubblico, appunto perché in ciò negligente, ed assuefatto a trascurar tale studio, non ha né gusto né capacità né per sentire né per giudicare le bellezze degli stili, né per esserne dilettato. Perché certi diletti, e non sono pochi, hanno bisogno di un sensorio formatovi espressamente, e non innato; di una capacità di sentirli acquisita. A chi non l’ha, non sono diletti in niun modo. L’arte piú sopraffina non sarebbe conosciuta: l’ottimo stile non sarebbe distinto dal pessimo. [4269 e 4271][17]
E sul tipo di stile che egli in questo periodo persegue, si veda quanto scrive trattando della poesia omerica (tema di cui egli si occupò a lungo): «la semplicità [...] è sempre effetto dell’arte; sempre opera dell’autore e non del tempo. Chi scrive senz’arte, non è semplice» [4326][18].
Estrema attenzione stilistica e ricerca di semplicità sono caratteri essenziali della poetica di questo periodo: la semplicità cui Leopardi mira e che anche il lettore piú comune apprezza (mettiamo nel Sabato e nella Quiete) è in realtà frutto di un’elaborazione artistica complessa, non certo di ingenua immediatezza e spontaneità; ed è perciò evidente che la poetica leopardiana è molto distante da altre, ad esempio da quella del Pascoli. Il poeta vero per Leopardi non è il “fanciullino”, ma un uomo maturo, colto, che può riscaldare e riprendere certi pensieri della fanciullezza, ma solo con l’enorme esperienza che attraversa la sua arte. Il linguaggio dei “grandi idilli” si configura cosí come semplice, affabile, ma raggiunto soltanto attraverso uno studio e un’arte profonda.
E, d’altra parte, se dovremo vedere in questa insistenza sul valore centrale dell’arte una polemica contro i letterati contemporanei e contro la letteratura romantica (già dal Discorso di un italiano configurata come negligente e vistosa, in qualche modo grossolana), per Leopardi ciò non significa che anche nel tempo presente il desiderio di poesia non sia qualcosa di sempre vivo negli uomini, di permanente e fondamentale; esso non è affatto spento: «L’imaginazione ha un tal potere sull’uomo [...] i suoi piaceri gli sono cosí necessari, che, anche in mezzo allo scetticismo di una società invecchiata, egli è pronto ad abbandonarvisi ogni volta che gli sono offerti con qualche aria di novità. [...] E quindi si vede che quello che si suol dire, che la poesia non è fatta per questo secolo, è vero piuttosto in quanto agli autori che ai lettori» [4479][19]. È un pensiero importante perché corregge l’impressione che si potrebbe ricevere dal pensiero già citato in cui Leopardi sembrava dare una preminenza assoluta a una poesia fatta per se stesso, senza pubblico: in quel passo dovremo perciò vedere una polemica contro la letteratura del tempo, non una chiusura a un dialogo con i lettori. Il bisogno di poesia è costante negli uomini di qualsiasi epoca, né si può privare la società del diletto della poesia e della letteratura. Scrive nel settembre del ’28:
Togliendo dagli studi tutto il bello (come si fa ora), spegnendo lo stile e la letteratura, e il senso de’ pregi e de’ piaceri di essi ec. ec., non si torrà dagli studi ogni diletto, perché anche le semplici cognizioni, il semplice vero, i discorsi qualunque intorno alle cose, sono dilettevoli. Ma certo si torrà agli studi una parte grandissima, forse massima, del diletto che hanno; si scemerà di moltissimo la facoltà di dilettare che ha questo bellissimo trattenimento della vita: quindi si farà un vero disservizio, un danno reale (e non mediocre per Dio) al genere umano, alla società civile. [4366][20]
Anche se questo pensiero non è sviluppato in tutte le sue conseguenze, esso mostra tuttavia che il Leopardi (al di là dell’affermazione del significato personale che ha per lo scrittore la propria opera) avverte bene che il piacere estetico è utile e necessario per il genere umano, che, se ne fosse privato, ritornerebbe alla barbarie. Scrive ancora, sempre a questo proposito, in un pensiero brevissimo intitolato Per un Discorso sopra lo stato attuale della letteratura: «Togliere dagli studi, togliere dal mondo civile la letteratura amena, è come toglier dall’anno la primavera, dalla vita la gioventú» [4469][21].
Il valore intimo e profondo che il Leopardi chiede alla poesia si trova infine anche in un pensiero del 1° febbraio ’29, dove l’accenno al Monti, morto appena da un anno, chiarisce ancor meglio quanto fin qui siamo venuti estraendo dallo Zibaldone: «Della lettura di un pezzo di vera contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma piú efficace impressione è quella de’ versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sí prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per cosí dire; e ci accresce la vitalità. Ma rarissimi sono oggi i pezzi di questa sorta. [...] Nessuno del Monti è tale» [4450][22]. Rifluisce qui quanto Leopardi aveva scritto sulla poesia che vale a riscaldare la vecchiezza attraverso il ricordo poetico, e insieme è chiarito che la poesia ci rinfresca la vitalità. E questa insistenza costante sul legame tra poesia e vitalità vale anche a distinguere la concezione estetica leopardiana da quelle a cui talvolta è stata avvicinata, che intendono la poesia come calata dal cielo sulla terra e il poeta come un tramite inconsapevole, una specie di medium: vale cioè a distinguerlo nettamente da ogni tipo di poesia pura, metafisica o platonicheggiante. Come egli già aveva scritto in alcuni altri grandi pensieri di anni precedenti, l’effetto che procura la poesia non è quello di rasserenare, di lasciare l’anima in riposo, ma quello di muovere, di eccitare, di arricchirci di forza; o in direzione piú intima e pacata, è qualcosa che «ci rinfresca [...] e ci accresce la vitalità».
L’attenzione e la direzione fondamentali dei pensieri leopardiani sulla poesia piú che essere di natura teorica e sistematica, tendono a indagare gli effetti della poesia e il rapporto tra poeta e lettori: di qui da un lato il raccordo tra poesia e vitalità (e, quindi, la differenza profonda tra Leopardi e teorici o poeti tendenti a staccare la poesia dalla vita, considerandola misticamente o spiritualisticamente), e, dall’altro, l’insistenza sulla portata energetica della poesia sulla sua genesi profonda nell’animo del poeta dal quale si comunica nel profondo ai lettori muovendo in essi non una semplice contemplazione della cosa bella ma sentimenti estremamente vivi (anche se ora piú misurati, coerentemente alla poetica di questo periodo)[23].
Nello Zibaldone di questi anni, numerosi e importanti sono i pensieri sulla lirica e sulla preminenza della lirica su tutti gli altri generi poetici. Già in anni lontani, nel 1820 ad esempio, Leopardi aveva affermato che «La lirica si può chiamare la cima il colmo la sommità della poesia» che, a sua volta, è «la sommità del discorso umano» [245][24]; ma in quei pensieri giovanili egli era rimasto legato a una partizione piú tradizionale dei generi, e aveva inteso spesso la lirica come lirica-eloquenza, tanto che aveva ricordato tra le canzoni petrarchesche quelle piú eloquenti o addirittura le civili e patriottiche, come Italia mia e Spirto gentil. Solo successivamente la preferenza leopardiana per la lirica si viene chiarendo come preferenza per un tipo di poesia in cui deve essere preminente e assoluta la soggettività del poeta. In un pensiero del 15 dicembre ’26, per mostrare che tutti gli altri generi poetici, epico, drammatico, satirico ecc., sono superati da quello lirico, Leopardi scriveva che esso è il «primogenito di tutti», il «piú nobile e piú poetico d’ogni altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione; proprio d’ogni uomo anche incolto», cioè tipico anche del periodo primitivo, «espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo» [4234][25].
Nella zona di pensieri che ci interessano piú direttamente, Leopardi torna ancora sulla distinzione dei generi e sulle ragioni della supremazia della lirica. Scrive il 29 agosto 1828, contestando una vera e profonda natura poetica agli altri generi: «il poema epico è contro la natura della poesia: 1. domanda un piano concepito e ordinato con tutta freddezza; 2. che può aver a fare colla poesia un lavoro che domanda piú e piú anni d’esecuzione? la poesia sta essenzialmente in un impeto» [4356][26]. Si tratta di una delle frasi di questo periodo che piú colpiscono, perché in essa confluiscono le meditazioni del Leopardi alla luce della sua esperienza, dei suoi effettivi desideri e della sua volontà di poesia, quella poesia che aveva cominciato a svolgersi nel periodo pisano (di poco precedente a questo pensiero) e che continuerà nel periodo recanatese dal ’29 all’inizio del ’30. E per la poesia drammatica:
Essa è cosa prosaica [...] Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentimento suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un carattere ch’ei non ha [...] è cosa alienissima dal poeta; non meno che l’osservazione esatta e paziente de’ caratteri e passioni altrui. Il sentimento che l’anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero poeta, il solo che egli provi inclinazione ad esprimere. Quanto piú un uomo è di genio, quanto piú è poeta, tanto piú avrà de’ sentimenti suoi proprii da esporre, tanto piú sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui, d’imitare, tanto piú dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto piú sarà lirico, tanto meno drammatico. [...] L’imitazione tien sempre molto del servile. Falsissima idea considerare e definir la poesia per arte imitativa, metterla colla pittura ec. Il poeta immagina: l’immaginazione vede il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il carattere essenziale del poeta. [4357-4358][27]
Sono tutte affermazioni di eccezionale importanza, per intendere che la tensione poetica di questo Leopardi ha un carattere di forte soggettivismo e antimimetismo. Leopardi si stacca completamente da un’idea della poesia come imitazione, come riproduzione della realtà: per lui, la poesia ha una sua forza originale, è creatrice, e il poeta è creatore e inventore. Ancora sul primato della lirica scriverà il 30 marzo 1829:
Da queste osservazioni risulterebbe che dei tre generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni, fosse il lirico [...] genere, siccome primo di tempo, cosí eterno ed universale, cioè proprio dell’uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia; la quale consisté da principio in questo genere solo, e la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il piú veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche. [...] Ed anco in questa circostanza di non aver poesia se non lirica, l’età nostra si riavvicina alla primitiva. [4476-4477][28]
Qui il primato della lirica è portato fino a identificare poesia e lirica, né meno importante è la caratterizzazione di questo genere come primitivo e moderno: Leopardi vuole indicare nella propria prospettiva poetica una specie di unione di poesia primitivo-moderna, che esprime il significato piú universale, piú antico e moderno insieme.
Sempre a questo proposito, Leopardi scrive: «L’entusiasmo l’ispirazione, essenziali alla poesia, non sono cose durevoli. Né si possono troppo a lungo mantenere in chi legge» [4372][29]. È un pensiero che si lega bene alla poetica di questo periodo, che tende a rilevare l’ispirazione, la creatività e la soggettività della poesia e del poeta: la poesia vera nasce dalla coincidenza profonda tra ispirazione ed esecuzione. Non va però vista in pensieri come questo una specie di autorizzazione leopardiana alla poetica del frammento, della breve fulgorazione poetica. In effetti a Leopardi non premeva indicare che vera poesia è la poesia breve e frammentaria, ma solo che essa deve essere tutta ispirata, senza cadute descrittivistiche, espositive di pensieri non animati dalla partecipazione e dall’esperienza vissuta del poeta. Tanto è vero che parlando della Divina Commedia, il 3 novembre del ’28, afferma: «La Divina Commedia non è che una lunga Lirica, dov’è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti» [4417][30]. Cioè anche un lungo e complesso poema è interamente poetico perché l’entusiasmo, l’ispirazione autentica del poeta è continuamente viva e presente con i suoi esperimentati affetti.
Accanto a questi pensieri sulla poesia che provano il fortissimo bisogno leopardiano di esprimere se stesso, i suoi fondamentali affetti e le sue effettive esperienze, si collocano i pensieri che affrontano il tema della ricordanza o della rimembranza, il motivo del valore del ricordo, della poeticità della ricordanza, del suo carattere gradevole, della sua dolcezza. È un tema che Leopardi aveva assai sviluppato negli anni ’18-20; nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica aveva opposto ai romantici, che desideravano soprattutto poesie di argomento attuale, la poeticità di argomenti antichi, che in quanto tali tornano a noi con la suggestione della ricordanza, e in uno degli idilli del ’19, Alla luna (che in un primo tempo aveva appunto intitolato La ricordanza), aveva affrontato direttamente il tema del ricordo che, pur quando si riferisce ad avvenimenti pieni di dolore e di infelicità, torna tuttavia sempre gradito: «Oh come grato occorre / il rimembrar delle passate cose, / ancor che triste, e che l’affanno duri!». Rispetto a questa impostazione giovanile, per cui la memoria e il ricordo danno un piacere e una indiscriminata dolcezza, il motivo della ricordanza espresso dal Leopardi tra il ’28 e il ’30 è assai piú complesso. Lo stesso Leopardi quando rivide nel 1835, con una sensibilità passata attraverso l’esperienza delle poesie pisano-recanatesi, il finale di Alla luna, vi inserí due versi nuovi per legare il piacere del ricordo all’età giovanile, quando la speranza ha ancora una lunga strada davanti a sé, mentre il cammino che può ripercorrere la memoria è breve: «Oh come grato occorre / nel tempo giovanil, quando ancor lungo / la speme e breve ha la memoria il corso, / il rimembrar delle passate cose, / ancor che triste, e che l’affanno duri!» (vv. 12-16)[31]. Cioè il piacere del ricordo, in questa nuova fase della poetica del Leopardi, viene a urtare nella barriera dell’esperienza triste, della caduta delle speranze, si carica di un confronto con il presente, con la sorte generale degli uomini, con lo spengersi delle speranze e delle illusioni, e ha perciò una risonanza molto piú complessa rispetto a quella che potevamo cogliere nel piú fragile idillio Alla luna. Quanto il poeta scrive nelle Ricordanze: «Qui non è cosa / ch’io vegga o senta, onde un’ immagin dentro / non torni, e un dolce rimembrar non sorga», sembra una posizione coincidente con quella di Alla luna: un “dolce rimembrar”. Però qui egli soggiunge: «Dolce per se; ma con dolor sottentra / il pensier del presente, un van desio / del passato, ancor tristo, e il dire: io fui» (vv. 55-60). Il motivo della ricordanza va perciò visto in uno sviluppo e in un approfondimento nel tempo, ma anche nel suo variare: non si può semplicemente considerare il tema del ricordo nei canti pisano-recanatesi come una pura e semplice continuazione, e tanto meno ripetizione di un motivo giovanile.
E questa è una considerazione che va estesa all’insieme della poesia di questo periodo commisurata agli idilli del ’19-20; in realtà è lo stesso Leopardi a impedire una considerazione della sua poesia sotto un’angolatura uniforme, quando definisce gli idilli del ’28-29 come poesie «esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del [proprio] animo». Il motivo della “rimembranza” in questo periodo è quindi assai piú complesso e molto diverso rispetto agli idilli giovanili dove il tema del ricordo aveva qualcosa di molto piú limitato, in qualche modo di piú facilmente edonistico, per cui la rimembranza è bella di per sé, e porta sempre una sfumatura di dolcezza anche se la cosa ricordata è dolorosa; mentre in queste nuove poesie non c’è solo la dolcezza del ricordo, ma anche la sua profonda elegia, e la risonanza poetica è assai piú forte.
Nello Zibaldone di questi anni Leopardi torna molte volte su questo tema. In un pensiero del 22 ottobre 1828, scrive: «Perché il moderno, il nuovo, non è mai, o ben difficilmente romantico; e l’antico, il vecchio, al contrario? Perché quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza. Che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente» [4415][32]. E il 10 marzo 1829:
Notano quelli che hanno molto viaggiato (Vieusseux parlando meco), che per loro una causa di piacere viaggiando, è questa: che, avendo veduto molti luoghi, facilmente quelli per cui si abbattono a passare di mano in mano, ne richiamano loro alla mente degli altri già veduti innanzi, e questa reminiscenza per se e semplicemente li diletta (e cosí li diletta poi, per la stessa causa, l’osservare i luoghi, passeggiando ec., dove fissano il loro soggiorno). Cosí accade: un luogo ci riesce romantico e sentimentale, non per se, che non ha nulla di ciò, ma perché ci desta la memoria di un altro luogo da noi conosciuto, nel quale poi se noi ci troveremo attualmente, non ci riescirà (né mai ci riuscí) punto romantico né sentimentale. [4471][33]
Il tema del ricordo viene cioè in queste pagine intrecciandosi anche con quel motivo della “doppia vista” del poeta di cui Leopardi scrive il 30 novembre 1828:
All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. [4418][34]
Sono parole essenziali per intendere la poesia di questo periodo: la qualità precipua dell’uomo immaginoso, cioè del poeta, è quella di vedere attraverso un oggetto un altro oggetto, di essere rinviato da una cosa che cade sotto i sensi, immediata, a un’altra, intrisa del nostro passato, legata alla nostra precedente esperienza, a tutta la nostra storia e appunto per questo estremamente poetica. Non si tratta evidentemente solo di oggetti lontani, ma di oggetti caricati di affetti, e perciò piú profondi e poetici. Cosí come aveva scritto alla sorella Paolina sulla strada pisana che chiamava la «Via delle rimembranze» perché andandovi a passeggiare era sollecitato al ricordo, a sognare a occhi aperti. E non meno importante è la distinzione che qui viene introdotta tra la persona poetica e non poetica, anche se altrove Leopardi afferma che tutti gli uomini hanno disposizione alla poesia, perché ciò che distingue il poeta è questa “doppia vista” mentre le persone non poetiche non possiedono che gli oggetti semplici che vedono immediatamente.
Ancora in un pensiero del 1° dicembre 1828, il Leopardi annota:
Nelle mie passeggiate solitarie per le città, suol destarmi piacevolissime sensazioni e bellissime immagini la vista dell’interno delle stanze che io guardo di sotto dalla strada per le loro finestre aperte. Le quali stanze nulla mi desterebbero se io le guardassi stando dentro. Non è questa un’immagine della vita umana, de’ suoi stati, de’ beni e diletti suoi? [4421][35]
Questa prospettiva poetica è ancora arricchita: gli oggetti sono poetici non perché visti direttamente e da vicino, ma perché immaginati; il non vedere in maniera chiara un interno, permette di immaginarselo e di riprodurlo non in modo fotografico attraverso una riproduzione della realtà, ma di arricchirlo attraverso una dialettica sentimentale-poetica per cui dall’oggetto siamo rimandati all’immaginazione che diventa in tal modo creatrice:
Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in un altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. [4426][36]
Sono molti i pensieri di questo tipo che vengono a convergere (anche con sfumature differenti, poi chiarificate all’interno della poesia leopardiana) nella poetica di questo periodo, illuminandola e chiarendola:
Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente, o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perché ci richiamano le rimembranze piú remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e credenze ci erano familiari e ordinarie. [...] E i poeti che piú hanno di tali concetti (supremamente poetici) ci sono piú cari. Analizzate bene le vostre sensazioni ed immaginazioni piú poetiche, quelle che piú vi sublimano, vi traggono fuor di voi stesso e del mondo reale; troverete che esse, e il piacer che ne nasce (almen dopo la fanciullezza), consistono totalmente o principalmente in rimembranza. [4513][37]
Dove è notevole il raccordo tra motivo della rimembranza e tema della fanciullezza, un intreccio poetico a cui il Leopardi attingerà soprattutto nelle Ricordanze.
E ancora:
Similmente molte immagini, letture ec. ci fanno un’impressione e un piacer sommo, non per se, ma perché ci rinnuovano impressioni e piaceri fattici da quelle stesse o da analoghe immagini e letture in altri tempi, e massimamente nella fanciullezza o nella prima gioventú. Questa cosa è frequentissima: ardisco dire che quasi tutte le impressioni poetiche che noi proviamo ora, sono di questo genere, benché noi non ce ne accorgiamo, perché non vi riflettiamo, e le prendiamo per impressioni primitive, dirette e non riflesse. Quindi ancora è manifesto che una poesia ec. dee parere ad un tale assai piú bella che un’altra, indipendentemente dal merito intrinseco ec. ec. [4515][38]
Non è tanto cioè l’intrinseca bellezza di certe opere poetiche a rendercele particolarmente grate, quanto la possibilità che abbiamo di ricollegarle a una lettura precedente, sicché la nuova lettura ci richiama il piacere già provato e insieme tutta la nostra antecedente situazione, la folla di sentimenti allora provati.
Un’altra via per cui Leopardi in questo periodo si avvicina alla ripresa della poesia è lo stesso lavoro per la Crestomazia di poeti italiani a cui attese tra la fine del ’27 e il giugno del ’28 per l’editore Stella di Milano[39]. Questa scelta ha un significato che va al di là di ragioni pratiche (da questi lavori editoriali Leopardi ritraeva le sue scarse risorse finanziarie) o semplicemente erudite, perché attraverso di essa egli ripercorre la sua stessa formazione letteraria, le sue letture e le sue preferenze. L’ordine seguito è cronologico, ma colpisce la dichiarazione per cui, eccettuati Dante e Petrarca, la poesia italiana comincia con il Quattrocento: evidentemente qui il Leopardi porta avanti e ribadisce la sua forte antipatia per il Medioevo, illuministicamente età di tenebre, di barbarie, di ignoranza. D’altra parte l’ampio spazio dato tra i poeti del secondo Settecento ad Alfonso Varano, autore di visioni sacre e morali, non può intendersi che come una preferenza (senza dubbio assai sproporzionata dal nostro punto di vista critico) per un tipo di poesia che insieme a quella del Monti gli era stata assai presente, all’altezza degli anni giovanili, specialmente subito prima dell’Appressamento della morte del 1816, Cantica fortemente intrisa di echi varaniani e montiani. Allo stesso modo l’abbondanza di testi del Chiabrera, del Filicaia e d’altri lirici eloquenti e civili va intesa come ritorno del Leopardi sulle sue letture formative che avevano sostenuto certi aspetti e momenti della sua poetica: in questo caso le canzoni patriottiche del ’18, All’Italia, Sopra il monumento di Dante, e ancora nel ’21 Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone. Né è difficile vedere la relazione tra l’ampia scelta di brani da poemetti eroicomici (come il Ricciardetto del Forteguerri del primo Settecento, oppure Lo scherno degli dei del Bracciolini del Seicento; oppure Il Malmantile racquistato del Lippi) e la formazione letteraria del giovane Leopardi che diverrà produttiva in direzione comico-satirica nella Batracomiomachia.
Occorre cioè valutare questo lavoro leopardiano come una presa di coscienza da parte del poeta, della propria storia e formazione; come un caratteristico ritorno al proprio passato, cosí tipico del periodo pisano. Tuttavia la Crestomazia non vale soltanto in una direzione retrospettiva, ma anche come testimonianza, spesso significativa, di atteggiamenti e motivi della poetica leopardiana di questo periodo. Il gusto gnomico, riflessivo e sentenzioso dei finali del Sabato del villaggio e della Quiete dopo la tempesta spiega bene come il Leopardi potesse essere attratto e sollecitato da autori sentenziosi, gnomici, favolistici, soprattutto del Settecento. Anche in questo caso la grande abbondanza di componimenti che il Leopardi trae dal De Rossi, uno scrittore romano, noto specialmente per lavori teatrali, si può spiegare solo per ragioni interne, non certo per il valore assoluto di questo scrittore. E nella stessa direzione di ricerca di esempi di poesia morale e sentenziosa si intende l’ampio spazio dato al Fiacchi, al Bertola, al Passeroni. Oppure, come lievito di poesia di paesaggio, quello dato a opere didascaliche e descrittive, come per il Cinquecento, La coltivazione dell’Alamanni, Le api del Rucellai, e, per il Settecento, La coltivazione del riso dello Spolverini. Sono autori quest’ultimi che potevano rinnovare in Leopardi il gusto del concreto, del reale, componente significativa della poetica di questa fase. Ma è pur necessario distinguere nettamente quei componimenti, che poterono anche dare un appoggio valido alla poesia del Leopardi, e questa sua poesia che non è mai puramente descrittiva e didascalica, fotografica, bozzettistica e mimetica, perché ha nel profondo una risonanza e un significato allusivo e suggestivo che le proviene da quel complesso modo di guardare alla realtà che il poeta chiamava appunto “doppia vista”.
Né meno indicative sono altre scelte fatte sulla linea di temi come lo scompenso tra vitalità e morte, tra gioventú e vecchiaia. Quando il Leopardi propone tra i componimenti di Vittoria Colonna una poesia come Velocità del tempo; caducità umana[40], noi ne avvertiamo la singolare affinità anche stilistica rispetto a quelle che sono le sue aspirazioni poetiche in questo periodo. Pensiamo cioè a una presenza nella memoria attiva del poeta (quando egli scrive ad esempio il Canto notturno o le stesse Ricordanze) di espressioni come: «E quando miro le vestite piante / pur di be’ fiori e di novelle fronde; / [...] dico fra me pensando: quanto è breve / questa nostra mortal misera vita!» (vv. 9-10 e 17-18). Un modulo che rimanda da un lato, per il «Dico» all’impostazione celebre del finale delle Ricordanze, e dall’altro, per quel «quando miro», ai versi 79 ss. del Canto notturno: «Spesso quand’io ti miro / star cosí muta in sul deserto piano, / [...] e quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando». È evidente che qui si assiste a un riaffiorare nella memoria del poeta di un’espressione della Colonna che lo aveva particolarmente colpito per la sua congenialità con una materia già profondamente sentita; né, ovviamente, è il caso di parlare di plagi, perché l’originalità sta nel modo con cui il Leopardi sa ricreare dall’interno reminiscenze da lui sentite congeniali alla sua impostazione poetica.
Altre scelte di brani poetici sembrano invece convergere su un tipo di spunti in direzione del Passero solitario: e non soltanto da un punto di vista tematico (il confronto e la dissimilazione tra il poeta e un elemento della natura), ma pure per certe cadenze musicali, soprattutto nella strofa iniziale dove sono raccolti elementi di maggiore vitalità, come il brillare della primavera, l’esultare dei campi ecc. Appoggi in tal senso devono aver dato la lettura di certe poesie del Sannazzaro, oppure (da un punto di vista magari piú tematico) di Celio Magno, un poeta del tardo Cinquecento apprezzato tra i primi proprio dal Leopardi; né meno sollecitanti, un passo sulla vita degli uccelli del Tasso, o un verso dello Spolverini: «Rider i poggi, ed esultar le valli».
1 Cfr. la lettera alla sorella Paolina del 30 ottobre 1827 (Tutte le opere, I, p. 1296).
2 Tutte le opere, I, p. 1296.
3 Lettera del 5 marzo 1828 (Tutte le opere, I, p. 1308).
4 Tutte le opere, I, p. 1308.
5 Tutte le opere, II, p. 1148.
6 Tutte le opere, I, p. 1310.
7 Lettera del 3 dicembre 1827 (Tutte le opere, I, p. 1300).
8 Tutte le opere, I, p. 1308.
9 Cfr. F. De Sanctis, Giacomo Leopardi cit., pp. 320-322.
10 Tutte le opere, I, p. 1312.
11 Tutte le opere, I, p. 1311.
12 Tutte le opere, II, p. 1154.
13 Tutte le opere, II, p. 1149.
14 Tutte le opere, II, p. 1158.
15 Tutte le opere, II, p. 1155.
16 E certo in una simile prospettiva il Leopardi che pure aveva, in altre fasi della sua attività, sostenuto l’idea della poesia come intervento civile e pubblico e che tornerà, specie all’altezza della Ginestra, a prospettare una poesia come messaggio di verità e di persuasione (ma appunto, si badi bene, di verità persuasa, di verità vissuta anzitutto dallo stesso poeta), sembra qui tanto piú evitare ogni possibile rischio di retorica, di vaticinio oratorio, di enfasi sul valore della poesia e sulle sue qualità “divine” e “oracolari”, quali potrebbero cogliersi magari anche nel grande Foscolo di fronte al quale il Leopardi appare certo anche piú profondo e intimamente vittorioso di ogni possibile tentazione retorica (senza peraltro negare le complesse ragioni della sua particolare direzione poetica e il valore storico-poetico delle sue opere). Ciò non toglie poi che pensando appunto alla grandissima Ginestra, come sopra dicevo, lí il piacere del poeta nel considerare la sua creazione e ritrovarvi espressi i propri intimi affetti sia come riassorbito e superato entro una prospettiva piú vigorosa, eroica (non retorica) di fronte alla quale l’intimizzazione della posizione del ’28 potrebbe apparire a sua volta troppo privata e limitata. Di fatto questa posizione vale nella prospettiva della poetica di questo periodo e segna comunque un acquisto di senso della assoluta intimità della poesia di cui il successivo Leopardi non perderà il valore piú profondo (a cui corrisponde anche il minor assillo della verifica del giudizio altrui sulle proprie opere rispetto alla propria coscienza e sicurezza, che sarà sempre piú chiara nell’ultimo periodo della sua attività).
17 Tutte le opere, II, pp. 1140-1141.
18 Tutte le opere, II, p. 1116.
19 Tutte le opere, II, p. 1219.
20 Tutte le opere, II, p. 1178.
21 Tutte le opere, II, p. 1215.
22 Tutte le opere, II, p. 1208. Il Monti, considerato ancora in quegli anni dalla maggioranza dei lettori di poesia il piú importante poeta contemporaneo, è confrontato dal Leopardi con questa suprema prova degli effetti della vera poesia e cosí da lui definitivamente squalificato.
23 Dobbiamo perciò sottolineare la vitalità della concezione leopardiana della poesia come suscitatrice di energie, per cui questo pensiero (la poesia «ci rinfresca, per cosí dire; e ci accresce la vitalità») va idealmente connesso, pur nella sua diversa intonazione, con quelli del ’23 quando, ad esempio, per contestare la validità dei drammi a lieto fine, il poeta scriveva: «Or fate che il dramma dopo avervi mosso all’odio verso il malvagio, ve lo dia, per cosí dir, nelle mani, legato punito, giustiziato. Voi partite dallo spettacolo col cuore in pienissima calma. E come no? Qual vostro affetto resta superiore agli altri? non rimangon tutti in pienissimo equilibrio? e una poesia che lascia gli affetti de’ lettori o uditori in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? che altro vuol dire essere in pieno equilibrio, se non esser quieti, e senza tempesta né commozione alcuna? e qual altro è il proprio uffizio e scopo della poesia se non il commuovere, cosí o cosí, ma sempre commuover gli affetti?» [3455-3456] (Tutte le opere, II, p. 862). Si veda anche il brano del 5-11 agosto sempre del ’23; la vera poesia, la lettura della vera poesia «cagiona nell’animo de’ lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni che lascia durevoli vestigi di se, e in cui principalmente consiste il diletto che si riceve dalla poesia, la quale ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma» [3139] (Tutte le opere, II, p. 786).
24 Tutte le opere, II, p. 106.
25 Tutte le opere, II, p. 1123. Per una breve storia della nozione di lirica nel Leopardi si veda M. Puppo, «La formazione del concetto leopardiano di “lirica”», in Poetica e cultura del Romanticismo, Roma, Canesi, 1962, pp. 173-185 (poi in Id., Poetica e critica del romanticismo italiano, Roma, Studium, 1985 (19882), pp. 143-156).
26 Tutte le opere, II, p. 1174.
27 Tutte le opere, II, p. 1175.
28 Tutte le opere, II, p. 1218.
29 Tutte le opere, II, p. 1180.
30 Tutte le opere, II, p. 1195.
31 Cfr. G. Leopardi, Canti, ed. critica a cura di F. Moroncini cit., p. 414.
32 Tutte le opere, II, p. 1195.
33 Tutte le opere, II, p. 1216.
34 Tutte le opere, II, p. 1196.
35 Tutte le opere, II, p. 1197.
36 Tutte le opere, II, p. 1199.
37 Tutte le opere, II, p. 1234.
38 Tutte le opere, II, p. 1235.
39 Cfr. G. Leopardi, Crestomazia italiana: La Poesia, introduzione e note di G. Savoca, Torino, Einaudi, 1968. La Crestomazia italiana: La Prosa è stata pubblicata con introduzione e note di G. Bollati, Torino, Einaudi, 1968.
40 Cfr. G. Leopardi, Crestomazia italiana: La Poesia cit., pp. 37-38.